Confessione alla mia mamma

Mamma, ne hai passate così tante! Fin da piccina avrei voluto difenderti da un fato che sembrava accanirsi contro di te. O almeno, avrei voluto difenderti dalle pene che ti causavo io. Quelle dovute ai miei problemi di salute per esempio. Sai? Dall’oculista. Quando non leggevo più giù della seconda riga, tu ritta da una parte, i miei due decimi scarsi e l’ombra, non mi impedivano di riconoscere quel tuo stropicciarsi nervoso di mani che, se avessi potuto, mi avresti dato volentieri la vista tua. Ti straripavano dagli occhi l’amore e la disperazione ogni volta che stavo male. Ricordi, da più grandicella, quando m’inventai il calcio che qualche balordo ti avrebbe sferrato nella pancia mentre eri incinta di me? Forse era per quello che ero venuta su tutta sbilenca. E dopo, l’aneddoto dell’ascensore che si era aperto sul più bello mentre tu e babbo mi stavate concependo? Quel povero spermatozoo che zuccata si era preso, l’ovulo doveva averlo fecondato di traverso! Io ci ridevo a crepapelle, tu ti inalberavi ogni volta che lo raccontavo, non erano cose convenienti da dire quelle!

E poi sono cresciuta per davvero, e l’ho fatto in compagnia di una grassa fetta di me che fotteva malignamente le tue aspettative. Ed era osceno, nei tuoi confronti, il mio tanto amarla quella fetta grassa, il mio non rammaricarmene affatto. Avresti voluto una donnina che fa il pane in casa e le marmellate con la frutta di stagione, invece ti era capitata questa strana figlia che blaterava robe che minavano alla base, la struttura della tua personalità. Mi dispiaceva crearti tanto scompiglio con quelle frasi buttate lì, infruttuosi tentativi di prepararti un po’ ad una verità di cui invece era bene non metterti a conoscenza. Così scelsi di non insistere. Per proteggerti, per anni ti ho tenuta all’oscuro. Se non che, con l’andare del tempo, del sordido egoismo ha roso come un tarlo la mia intenzione di tutelarti,  alla fine sbriciolandola.

Ho fallito mamma. La mia tarda confessione hai dovuto ingoiarla una triste mattina d’inverno. Come mi sono chetata mi hai abbracciata stretta stretta, quasi mi considerassi ancora priva di peccato, e hai asserito con voce ferma che mi avresti ugualmente amata. Ma io ti so più di quanto abbia mai saputo me e a me non puoi nasconderti. Ho visto uno sforzo ferino trapelare dalle rughe del tuo volto che in quel mentre si sono fatte assai più fonde. Il mio lato oscuro, quello che non potrai mai elaborare, ti ha travolta, ti ha ferito più di qualsiasi mia malattia. In questo mondo che dici non essere più il tuo. In questa vita che non ti ha risparmiata. Ti avevo guardata con gli occhi gonfi mentre sussurravo parole che sapevano del tuo sangue, pensando che avrei voluto darti serena almeno la vecchiaia. Ti avevo guardata guardarmi con quei tuoi occhi gonfi, incapace di comprendere perché non potessi esimermi dall’essere ciò che sono. Eppure altro, quel giorno, non avresti mai potuto dirmi, mamma. Altro, ogni giorno che da allora è trascorso, non avresti mai potuto fare. Hai usato quel tuo cuore enorme per schiacciare la ribellione dell’anima tua, e mi hai ugualmente amata.

Che io possa un giorno perdonarmi il male che ti fa il mio voler non rinunciarmi.

Maggio 2017